EDUCARE ALLA COMPLESSITÀ

In un contesto iperconnesso e sempre più tecnologico, quali sono (o diventeranno) tempi, spazi e linguaggi dell’educatore? Quali competenze debbano oggi fornire le diverse agenzie educative? Questi sono alcuni degli interrogativi su cui si confronteranno le cooperative sociali all’interno del percorso EducaLAB che ha avuto un’anticipazione in un seminario organizzato all’interno del festival EDUCA. Mattia Mascher, ha intervistato uno degli ospiti: Piero Dominici professore di Comunicazione Pubblica e di Attività di Intelligence presso l’Università di Perugia, oltre che Director (Scientific Listening) presso il Global Listening Center e Direttore Scientifico del Complexity Education Project, per sentire la sua opinione in merito.

Professore, come vede il rapporto fra nuove tecnologie ed educazione?

Come ho avuto modo di ripetere più volte nel corso degli anni, attualmente, come mai in passato, la tecnologia è entrata a far parte della sintesi di nuovi valori e di nuovi criteri di giudizio (1996), rendendo ancor più evidente la centralità e la funzione strategica di un’evoluzione che è culturale e che va ad affiancare quella biologica (si pensi alla tematica del “cambiamento di paradigma”), condizionandola profondamente e determinando dinamiche e processi di retroazione. In altre parole, nel quadro complessivo di un necessario ripensamento/ridefinizione/superamento della (falsa) dicotomia natura vs. cultura – ma anche naturale vs. artificiale – non possiamo non prendere atto di come i ben noti meccanismi darwiniani di selezione e mutazione si contaminino sempre di più con quelli sociali e culturali, che caratterizzano la statica e la dinamica dei sistemi sociali. In tal senso, non possiamo non registrare come i tradizionali confini tra formazione umanistica e formazione scientifica – una di quelle che ho definito, già negli anni Novanta, “false dicotomie” – siano completamente saltati. Sempre più difficile, oltre che fuorviante, provare a tenere separati i due percorsi evolutivi e, allo stesso tempo, sempre più urgente si fa la domanda di un approccio sistemico, multidisciplinare e interdisciplinare ad una complessità che sfugge, non soltanto ai tradizionali modelli lineari, ma anche a qualsiasi formula matematica e/o sequenza di dati. E, ancora una volta, non si tratta di essere “pro” o “contro” tali dinamiche, “pro” o “contro” la cd. rivoluzione digitale e/o le tecnologie, scadendo in spiegazioni riduzionistiche e/o deterministiche; anzi occorre spingersi oltre la sterile, ma sempre dominante, polarizzazione del dibattito. Dobbiamo acquisire consapevolezza di trovarci difronte ad una trasformazione antropologica (1996), con profonde implicazioni epistemologiche (sottovalutate), che ci chiede, nei processi educativi e formativi, di provare a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico (1998), superando quella visione ingannevole e fuorviante che considera e presenta la tecnologia/le tecnologie come un qualcosa di “esterno” alla cultura, ai modelli ed ai processi culturali. Al contrario, ne sono “prodotti” complessi, di sintesi complessa. Ma dobbiamo mettere mano, in maniera radicale, a educazione e formazione, smettendola di pensare a Scuola e Università come fossero entità separate e, soprattutto, pensando al “lungo periodo”. Ora lo sostengono tutti, salvo procedere nelle direzioni di sempre. Certamente, se penso al tempo trascorso da quando ne parlo (e faccio ricerca), e se ne parla, non c’è da essere ottimisti. Ma l’impegno non viene e non verrà mai meno. Bisogna essere chiari: dipende soprattutto da educazione e formazione se la civiltà ipertecnologica e iperconnessa sarà “inclusiva” o “esclusiva”. Ripeto da anni: non saranno il digitale e le tecnologie, in sé e per sé, a costruire le condizioni, sociali e culturali, della cittadinanza e dell’inclusione.

In che senso?

Deve crescere la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una società ipercomplessa e iperconnessa (Dominici,1998-2018) in cui, ormai da tempo, le regole d’ingaggio delle cittadinanza non sono più definite/prodotte, come in passato, dal cd. Legislatore: le regole d’ingaggio della cittadinanza sono definite/prodotte e riprodotte proprio all’interno delle istituzioni educative e formative, in passato pienamente responsabili, oltre che protagoniste, della creazione di nuove condizioni di emancipazione e inclusione. Vado ripetendo da anni – e, anche di recente, abbiamo avuto conferme dall’ultimo Rapporto Istat sulla Conoscenza – che Scuola e Università sono tornate ad essere “agenzie di selezione”, dopo aver provato ad essere, per qualche tempo, “agenzie di emancipazione”. Siamo in presenza di nuove asimmetrie e disuguaglianze, con condizioni preoccupanti anche in termini di povertà educativa e analfabetismo funzionale…e, in queste condizioni, si può essere sudditi in democrazia, non conoscendo i propri diritti/doveri; non conoscendo gli strumenti e i canali (e non avendo accesso a questi); non essendo sufficientemente alfabetizzati, preparati e (appunto) competenti per incalzare, dialogare e confrontarsi con qualunque tipo di autorità; non essendo educati e preparati a partecipare attivamente alla vita pubblica e democratica, alla costruzione di una sfera pubblica autonoma, non più ancella della politica (ibidem). Nella profonda consapevolezza che – come sostenevo già in tempi non sospetti – “democrazia è complessità, non semplificazione” (Dominici, 1995 e sgg.).

Come può la scuola andare in questa direzione?

Molteplici i piani di discorso, analisi, intervento, tra breve, medio e lungo periodo. In un contesto di riferimento complessivo segnato, non da ora, da un eccesso di riformismo che, talvolta, rasenta il “nuovismo acritico di maniera” (non soltanto con riferimento all’educazione digitale e/o ai media) e la preoccupante assenza di politiche (lungo periodo) dell’istruzione e della ricerca. Sul piano delle logiche e delle culture organizzative, si tratta di rivedere, mettere in discussione, quella cultura della valutazione (tema complesso, come complessa è la valutazione) e della standardizzazione che segna in profondità le scelte e le strategie in materia di istruzione, educazione e formazione. Oggi, forse come mai in passato, occorre recuperare le dimensioni complesse della complessità educativa: l’empatia, il pensiero critico, una visione sistemica dei fenomeni, l’educazione alla comunicazione, oltre a dimensioni che abbiamo volutamente rimosso, come le emozioni, l’immaginario e la creatività. Significa ripensare lo spazio relazionale e comunicativo dentro le istituzioni formative ed educative, rilanciare l’educazione nella prospettiva sistemica di una educazione che non può che essere socio-emotiva. Dal momento che, proprio in questa civiltà ipertecnologica, innervata da sistemi complessi (interdipendenti e interconnessi), dominata dalla tecnica e dalle tecnologie (sempre più invasive) e animata da nuove utopie e distopie, continuiamo a ripetere e perpetuare l’errore più grave, un errore a dir poco strategico, definito in passato il “grande equivoco”: credere che servano un’educazione ed un formazione esclusivamente di natura “tecnica” e tecnologica, con uno schiacciamento sul “saper fare”, e credere che educazione e formazione vadano semplicemente adeguate al cambiamento tecnologico, ridimensionando progressivamente lo spazio per le discipline umanistiche e più creative (arti e forme estetiche comprese).

Lei è un esperto di comunicazione. È più preoccupato o ottimista rispetto al rapporto fra informazione e nuove tecnologie?

In prima luogo, credo che non si debba fare confusione tra comunicazione e connessione. Detto questo, Le rispondo con le parole di una mia vecchia definizione: “La società interconnessa/iperconnessa è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono ormai divenute le risorse principali; un tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono dei fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponde ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione) (definizione del 1996). […] La tecnologia, i social networks e, più in generale, la rivoluzione digitale, pur avendo determinato un cambio di paradigma, creando le condizioni strutturali per l’interdipendenza (e l’efficienza) dei sistemi e delle organizzazioni e intensificando i flussi immateriali tra gli attori sociali, non sono tuttora in grado di garantire che le reti di interazione create generino relazioni, fino in fondo, comunicative, basate cioè su rapporti simmetrici e di reale condivisione. In altre parole, la Rete crea un nuovo ecosistema della comunicazione (1996) ma, pur ridefinendo lo spazio del sapere, non può garantire, in sé e per sé, orizzontalità o relazioni più simmetriche. La differenza, ancora una volta, è nelle persone e negli utilizzi che si fanno della tecnologia, al di là dei tanti interessi in gioco”. Si comprende bene, ancora una volta, la rilevanza strategica, e assolutamente decisiva, di istruzione, educazione, ma anche di formazione e ricerca. Anche, e soprattutto, per il destino delle nostre democrazie. Detto questo, non possiamo non rilevare come, non da oggi, gli effetti dei mezzi di comunicazione e delle tecnologie di connessione (che hanno introdotto una nuova viralità, accelerando ulteriormente dinamiche e processi), oltre che dei nuovi ambienti comunicativi, siano tanto più forti laddove le agenzie di socializzazione sono deboli e/o attraversano un momento di transizione estremamente critica. Per essere ancora più espliciti: post-verità (tema datato), fake news, bufale etc. non sono la patologia ma il sintomo di qualcosa che ci deve preoccupare molto di più. E mi riferisco all’inquietante declino della democrazia che passa attraverso un’informazione poco rigorosa e poco credibile, uno svuotamento del ruolo e delle funzioni delle agenzie educative, una sospensione di quella dialettica complessa che dovrebbe far interagire potere e società civile. Come sostengo da sempre, che senso può avere anche soltanto parlare di cittadinanza digitale, se non siamo in grado di garantire i pre-requisiti e le condizioni della cittadinanza, se non siamo in grado di garantire l’eguaglianza delle condizioni di partenza, senza la quale anche i discorsi sulla meritocrazia diventano pura retorica. Da più parti si sente parlare di democrazia diretta, in perfetta continuità con le retoriche della disintermediazione e le grandi narrazioni su una civiltà digitale per sua “natura” inclusiva ed aperta. A tal proposito, ho proposto, in passato, la definizione di “società asimmetrica”. Sappiamo che le variabili e i fattori da considerarsi sono numerosi e che le questioni cruciali (e complesse) da affrontare non riguardano la tecnologia/le tecnologie (opportunità), bensì l’educazione e la formazione. Ma – intendo essere chiaro – la democrazia è innanzitutto complessità e la semplificazione non può essere un valore in assoluto. La democrazia è mediazione, pluralismo e pluralità, convergenza, ascolto, conflitto, fatica, fallimento, errore, responsabilità. Non ci sono soluzioni semplici per problemi complessi, anche a livello organizzativo. Se non educhiamo e formiamo le nuove generazioni a questa meravigliosa, e imprevedibile, complessità, ne pagheremo care le conseguenze.

Come vede il ruolo dei genitori in questo contesto?

Pur in un contesto generale di “policentrismo formativo” e di pluralizzazione della socializzazione, il ruolo dei genitori e, più in generale, delle agenzie di socializzazione è e sarà sempre fondamentale. Così come è e sarà sempre fondamentale, proprio e a maggior ragione nella civiltà ipertecnologica e della disintermediazione, il ruolo (e le funzioni) delle figure e delle istituzioni di mediazione. In questa prospettiva di analisi, tra le possibili strade da percorrere, di vitale importanza è senz’altro lavorare e impegnarsi per provare a ricomporre i legami sociali, creando le condizioni affinché i diritti non rimangano vuote parole, riattivando i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione (educare alla responsabilità). Processi e dinamiche complesse e – lo ripeto – di lungo periodo. Consapevoli, ancora una volta, che le tecnologie e le culture digitali potranno offrire un contributo di fondamentale importanza, soltanto se saremo stati in grado di rilanciare e valorizzare (servono investimenti e risorse) al massimo le istituzioni educative e formative, rimettendo al centro i processi educativi e comunicativi, lo spazio educativo e relazionale, il “contratto sociale”. Le Persone e le nuove soggettività.