EMERGENZA EDUCATORI: NON DIAMO TUTTA LA COLPA AI GIOVANI

12 giugno 2022

di Francesca Gennai, vicepresidente Consolida

La mancanza di infermieri, di operatori socio-sanitari e di educatori è da alcune settimane al centro della cronaca e del dibattito pubblico, nazionale e locale. Ne abbiamo letto anche sulle pagine di questo quotidiano a proposito delle attività estive per bambini e ragazzi.

Certo ce ne potevamo accorgere prima, bastava ascoltare i demografi che da anni richiamano l’attenzione sul progressivo e sensibile impoverimento della popolazione e quindi della sua forza lavoro proprio in quelle età che dovrebbero essere più attive e produttive. Un dato per tutti gli attuali 30 – 34 enni sono oltre un milione in meno rispetto a chi è nella corte di età fra i 40 – 44 enni. Il trend per il futuro è ancora più infausto.

Che il tema sia finalmente nell’agenda pubblica e mediatica è comunque un bene perché, da un lato tocca la vita di migliaia di famiglie che rischiano di poter più accedere a servizi essenziali per il benessere, dall’altro riguarda il futuro del nostro Paese.

A fronte di un ampiamento della richiesta di servizi educativi, infatti, la mancanza di figure professionali con titolo ed esperienza adeguata è pesante. Le cooperative sociali di Consolida accoglieranno nei prossimi mesi più di 3.000 bambini e ragazzi, ma il problema del personale nel periodo estivo è meno rilevante per chi si occupa di educazione 12 mesi all’anno su fronti diversi (dai nidi alle scuole, ai doposcuola e centri socio – educativi), e può così contare anche su figure professionali qualificate che già lavorano in altri servizi. In ogni caso la criticità rimane ed è una sfida da affrontare in una prospettiva che va oltre la contingenza dell’estate considerandola nella sua complessità, senza sconti e semplificazioni. Le cause infatti sono molteplici e articolate; dare tutta, o quasi, la colpa ai giovani additandoli come poco volenterosi o disponibili è la via più semplice, ma sicuramente la meno generativa per individuare soluzioni. Bisogna andare più a fondo nell’analisi per cercare di rimuovere alcuni ostacoli sia in termini formativi che di appeal delle professioni educative.

Partiamo pure dai giovani: innanzitutto, lo abbiamo già detto, sono meno di un tempo e nei prossimi anni la situazione non migliorerà, anzi. Poi solo il 60% di loro è in possesso di un diploma ed il 20% di un titolo di laurea, dati inquietanti considerato il livello di formazione indispensabile per partecipare al mercato del lavoro e avere prospettive di crescita professionale. Questo vale in modo particolare nel mondo del sociale dove le modalità di affidamento dei servizi (accreditamenti, appalti, e così via) impongono requisiti professionali sempre più stringenti.

Contestualmente si assiste ad un aumento esponenziale della considerazione sociale per tutte le professioni associabili con l’etichetta STEAM (dall’informatica alla comunicazione) a discapito di tutte quelle che hanno una declinazione legate alla “cura” e all’educazione. Del resto a fronte di percorsi professionali impegnativi come sono questi ultimi, le prospettive professionali sono quelle di avere stipendi mediamente più bassi e una minor reputazione sociale. C’è poi da chiedersi su questa “settorializzazione” professionale risponda oggi in modo efficace ai bisogni educativi e formativi di bambini e ragazzi.

Il mondo della scuola e delle agenzie educative in dialogo con le istituzioni – e qui è il nodo – deve chiedersi se gli attuali profili che impiega sono ancora quelli necessari o se invece non serva una maggiore integrazione con altre professioni. Un esempio fra i tanti possibili: nei nidi d’infanzia non è prevista la figura dell’atelierista le cui competenze specifiche sui diversi linguaggi espressivi, possono invece arricchire notevolmente i processi educativi per bambini 0 – 3. Ma allo stesso modo, anche per gli altri gradi scolastici, si potrebbe dire di naturalisti, musicisti, artisti, archeologi e così via. Allargare il portfolio dei profili professionali che possono essere inseriti nei contesti educativi, oltre ad aumentarne la qualità, porterebbe ad un ampliamento anche delle possibilità di reperimento di forza lavoro con un maggior numero di persone che possono guardare con interesse il lavoro sociale.

Concludo con una considerazione che va oltre il “sociale”: post pandemia si sta verificando un esodo generalizzato dal mercato del lavoro, basti pensare agli autotrasportatori, al personale della ristorazione e degli alberghi. Se per i giovanissimi, infatti, si parla di ritiro sociale, per gli adulti si inizia a ipotizzare un vero e proprio ritiro professionale. A questo si aggiunge un mutamento nelle aspettative professionali delle nuove generazioni: gli studi stanno registrando nei millenians un equilibrio diverso dal passato nella scala dei valori tra lavoro, interessi personali e familiari. Struttura e organizzazione del mondo produttivo devono fare i conti con questo mutamento. Chiaro che resettare il sistema richiede tempo, ma le imprese, anche sociali, in un momento storico come questo di “riordino” dopo il caos della pandemia, devono iniziare a rileggere i propri processi produttivi ed erogativi per renderli coerenti al modo in cui le generazioni del futuro scelgono di vivere la loro vita.