La causa iniziale dell’emarginazione delle persone con disabilità non è la menomazione in quanto tale, ma lo sguardo che posiamo, a livello individuale e collettivo, su di loro. È questa consapevolezza – comprovata da studi e documenti internazionali come la Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità– che occorre tenere a mente quando si affrontano gli importanti interrogativi sollevati nel dibattito aperto da Patrizia Belli sulle pagine di questo quotidiano.
Più ricerche evidenziano come nel mondo occidentale (in Italia in misura maggiore che nei Paesi del Nord Europa e del Nord America) nella rappresentazione mediatica (che include anche l’audiovisivo, le fotografie e i social media) si oscilli ancora tra l’occultamento/silenzio e il pietismo/compassione della disabilità, con l’eccezione di casi di esaltazione/ammirazione per performance sportive o artistiche che si pongono in termini di eccezionalità (i supereroi). Questa visione stereotipata contribuisce in modo rilevante a costruire l’immaginario collettivo, e quindi la realtà e i comportamenti sia nelle relazioni interpersonali che in quelle sociali e collettive, e influenza grandemente le scelte politiche. La percezione comune della disabilità ha a che fare ancor oggi in modo prevalente con la limitazione, l’incapacità, la non possibilità, la mancanza, la menomazione. E questo genera spesso reazioni di evitamento, timore, pietà. Sostiene magari un sistema assistenziale, ma non toglie barriere architettoniche e culturali che ostacolano la vita indipendente o comunque inclusiva e piena.
La questione non è quindi formale, né meramente tecnica, bensì sostanziale e riguarda la cultura collettiva.
Chi si occupa di disabilità – come cooperative sociali, associazioni, ma anche enti pubblici – deve assumersi la responsabilità di contribuire all’affermazione di una idea di disabilità rispettosa delle potenzialità, diritti, aspettative e desideri delle persone e adoperarsi perché questa visione sia sostenuta con azioni concrete.
Va corretto il giornalista quando scrive “disabile”, o ancor peggio handicappato identificando così la persona con il suo deficit, ma vanno fatti riflettere anche gli operatori sociali quando chiamano “ragazzi” gli utenti over 40 dei loro servizi. E così incorrono in errore quei genitori che definiscono i loro figli con disabilità più che maggiorenni ancora come “i loro bambini”. Certo identificare e criticare gli errori è più facile che trovare nuove e altre direzioni rispettose dei diritti da un lato ed efficaci dall’altro, anche perché dietro a questo linguaggio ci sono spesso motivazioni, almeno in parte, condivisibili: il tempo ridotto per scrivere un articolo, lo spazio concesso per il titolo o l’occhiello e la sua efficacia nel catturare l’attenzione del lettore, o ancora il desiderio di protezione e l’orientamento alla cura e all’assistenza.
Ma queste ragioni non sono e non possono essere auto-assolutorie: se si vuole costruire uno sguardo diverso e un futuro autentico occorre andare oltre e cercare, o almeno provare a cercare modalità nuove.
Alcuni ci hanno provato o ci stanno provando, spesso però “settorialmente”, basti pensare agli ordini dei giornalisti locali che organizzano percorsi di formazione per gli iscritti, al (certamente meritorio) lavoro dell’agenzia di stampa Redattore sociale con il portale parlarecivile.it o ancora alle iniziative di associazioni di tutela o di genitori che denunciano soprusi narrativi e provano a dare indicazioni che nascono dai loro vissuti personali.
In Trentino si sta lavorando per superare questo approccio settorializzato e costruire uno sguardo plurale che aiuti ad interpretare una situazione complessa come la disabilità, che già in sé è un contenitore così ampio da diventare vago con il rischio di annacquare (e spesso ledere) i diritti delle persone con disabilità, da non permettere cioè di tener conto delle storie di vita, delle difficoltà, ma anche delle capacità, dei desideri.
Dalla scorsa primavera il consorzio Consolida insieme all’Ordine dei giornalisti del Trentino Alto Adige con la collaborazione della Fondazione Demarchi e il sostegno della Provincia autonoma di Trento ha attivato il laboratorio Est&tica cui partecipano giornalisti e professionisti della comunicazione (videomaker, sociali media manager, grafici, fotografi) insieme ad operatori sociali, genitori e persone con disabilità. Con la supervisione del professore Michele Marangi dell’Università Cattolica il gruppo multidisciplinare e multiesperienziale si sta interrogando su come si possa coniugare una comunicazione efficace con il rispetto dei diritti delle persone con disabilità e dei loro famigliari. Un interrogativo ampio che si declina poi in domande specifiche come, ad esempio, quella sollevate da Patrizia Belli: la solidarietà, direi l’umanità, ha davvero bisogno di foto scioccanti e crude che mostrano la sofferenza? E ancora la doverosa denuncia di abusi e violazione dei diritti deve essere per forza ammantata di pietismo e dolore? Il fine della raccolta fondi giustifica l’uso strumentale dell’immagine di persone con disabilità? Non c’è spazio nell’informazione sulla disabilità per la gioia, la leggerezza, la forza? Le conquiste devono essere solo eclatanti scalate e vittorie agonistiche, o possono anche essere quelle quotidiane per una vita serena?
A partire da questi interrogativi il gruppo sta elaborando delle linee guida per la rappresentazione della disabilità, che presenterà a novembre, indicazioni quindi non prescrittive e univoche, ma orientanti per il rispetto dei diritti delle persone con disabilità. E di tutti.
di Serenella Cipriani, presidente Consolida.
Per seguire il dibattito:
Editoriale Patrizia Belli, Quei bimbi disabili negli spot 27-08-2019
Editoriale Luciano Enderle, Disabili negli spot, Parliamone 28-08-2019