Si moltiplicano, in questi giorni, le iniziative che tentano di dare continuità all’esperienza delle cooperative sociali travolte dal ciclone Covid-19, mentre molti attori, non solo quelli della tradizionale rappresentanza, si affacciano sulla scena della tutela degli enti di Terzo Settore. Complice anche una normativa non compiutamente attuata che ha lasciato in un limbo non definito e privo di tutele alcune forme organizzative del Terzo Settore, il riferimento è alle fondazioni e alle associazioni che gestiscono servizi, totalmente esclusi dai vari decreti Cura Italia.
Risulta evidente come la tempesta abbia colpito in maniera selettiva i servizi sociali, educativi e di prossimità, in relazione sia ai destinatari degli interventi, sia alle modalità con cui questi erano prodotti, ovvero la relazione.
Più in generale l’epidemia ha colpito tutto il mondo dei servizi, rappresentando in un certo senso una terza ondata ristrutturatrice, dopo quella che ha colpito negli anni 2000 la produzione manifatturiera e otto anni dopo il sistema finanziario.
Ripensare i servizi – da quelli sociali al tempo libero – vuol dire in ogni caso intervenire sul più consistente bacino occupazionale esistente, ripensare i modelli organizzativi, la sostenibilità e la dotazione tecnologica.
L’epidemia ha, infatti, colpito le cooperative sociali in una fase di maturità organizzativa e di stabilizzazione dei mercati, in cui la tendenza ad appiattirsi sul modello organizzativo delle cooperative di produzione lavoro risultava fortissima.
Questa attrazione rispondeva da un lato al crescente ruolo dei dipendenti rispetto a quello di volontari e famigliari che aveva caratterizzato invece la fase pionieristica, dall’altra all’omologazione tra forme organizzative che gli enti di rappresentanza hanno imposto in sede di vigilanza cooperativa, basti pensare a come viene limitato in Trentino il ruolo dei volontari nelle compagini sociali, fino ad ipotizzare che queste figure determinano il costituirsi di una cooperativa spuria, né di tipo A né B.
Potremmo dire: travolte da troppo successo, le cooperative tendevano a regredire.
La crisi in un attimo ha spazzato via certezze, mercati, posizionamenti. Mettendo all’ordine del giorno il tema della continuità aziendale, non solo delle cooperative sociali, ma di tutto il Terzo Settore produttivo.
Nelle situazioni di crisi si tende a reagire ricorrendo all’esperienza e in questo caso sono emersi due riflessi incondizionati: il primo che tende a garantire la sopravvivenza aziendale attraverso la richiesta e il riconoscimento della continuità dei servizi, una sorta di “vuoto per pieno” e di valorizzazione dei costi incomprimibili; il secondo è il ricorso alla finanza e alla capitalizzazione, ricostruendo quell’alleanza virtuosa tra fondazioni di origine bancaria, volontariato, associazioni di rappresentanza e fondi europei che è alla base della nostra storia.
Ambedue le risposte sono legate alla situazione contingente, permettono nell’immediato di non serrare la saracinesca, ma coprono un raggio di azione molto breve. Immaginano in qualche modo che questa sia una parentesi, che “il dopo”, passata la burrasca, sia come “il prima”. E questo scenario non è del tutto accettabile.
Esiste infine una terza posizione che prevede di alimentare il processo di capitalizzazione ricorrendo a forme di imposizione fiscale, superando uno dei più significativi momenti di crescita del Terzo Settore rappresentato dal 5 x mille, con la sua carica evocativa di sussidiarietà, volontarietà e gratuita, il cui limite è anche la cifra del suo successo, ovvero il gran numero di organizzazioni e di enti che vi ricorrono sia per le risorse che per la connotazione legittimante dello strumento.
Io credo che da un lato occorra attivare tutti gli strumenti necessari a garantire la continuità delle imprese, a rafforzare la loro capacità di stare sul mercato e di rispondere ai bisogni delle comunità (che stanno cambiando); dall’altro debbano essere individuate nuove vie, liberate nuove risorse finanziarie e ricostruito un grande disegno di mutualizzazione dei bisogni. Non scordiamoci che il modo in cui risponderemo a questa emergenza contribuirà a costruire la comunità di domani.
È necessario, quindi, reperire nuove risorse e nuovi capitali.
Capitali di rischio veri, non condizionanti ma legati ad un disegno di sviluppo e nuove risorse. Immagino, ad esempio, sia possibile costituire uno o più fondi, anche su base territoriale, rifacendosi anche alla normativa vigente di regolamentazione dei trust per avviare attività a favore delle comunità, e in cui conferire beni liberi, aree dismesse, beni di enti religiosi, lasciti di famiglie, aree marginali, beni demaniali di difficile valorizzazione. Rimettere quindi in circolo beni marginali a servizio di un disegno di sviluppo delle comunità e dell’occupazione. Questi strumenti dovrebbero avere a valle una strumentazione finanziaria, anche innovativa, ma legata alla materialità dei beni, finalizzata a metterli in produzione. Soprattutto in un momento in cui il limite allo sviluppo della finanza pare essere riconducibile solo al quantitativo di inchiostro o di carta per stampare moneta.
Una rilevante iniezione di risorse da usare e non da consumare per riscrivere un nuovo capitolo nei servizi di prossimità. Recuperando quel dato iniziale, che ha rappresentato la vera innovazione, ovvero l’incorporazione della domanda di servizi nell’impresa sociale.
La maturità della cooperazione sociale pare essere caratterizzata da una sorta di processo di secolarizzazione – se l’uso del termine è lecito – che ha fatto perdere alcune delle caratteristiche iniziali. Il processo in corso, la necessità di riscrivere nuovi patti con le comunità originarie, il ridisegno dei servizi nel tempo e non più solo nello spazio, la necessità di condividere risorse e luoghi, possono originare dei processi di qualificazione del nostro operare.
LE PROSPETTIVE IN TRENTINO.
Nella nostra realtà la storia della cooperazione sociale è stata caratterizzata, più che da interventi di generazione di impresa supportate da processi di capitalizzazione, dalla creazione di un reticolo in cui, esigenze dell’ente locale, bisogni delle famiglie, volontà di autoimpiego, disponibilità di risorse (si pensi alla concessione gratuita di spazi di tutti gli anni 90), hanno generato un’esperienza con alcuni tratti originari. In particolare, una forte integrazione con l’ente pubblico, un accesso al credito facilitato da una intensa presenza del credito cooperativo, un basso utilizzo degli strumenti di capitalizzazione. Nella nostra esperienza ci sono solo due iniziative nella direzione di sostegno allo sviluppo della cooperazione: i Piccoli Sussidi per le coop. B all’inizio degli anni 2000 e ora il Fondo Partecipativo.
La carenza di capitali è stata superata dalla cooperazione in una prima fase dalla possibilità di usare immobili gratuitamente o quasi, poi da rilevanti contributi all’acquisto, successivamente ed in alcuni significativi casi, da disponibilità concesse da parte privati o istituzioni religiose. Tutto questo, accompagnato da una politica delle rette dimensionata su ogni singolo servizio, ha permesso fino a metà del decennio scorso una crescita costante. Si è avviata ed ancora in corso, dopo tale periodo una fase di definizione dei rapporti contrattuali con l’ente pubblico. La crisi odierna avviene in questo contesto, di qui l’esigenza di integrare strumenti contrattuali, finanziari e immobiliari per ridare fiato alla nostra esperienza. Di qui anche le richieste sull’incremento del fondo partecipativo, le attività finalizzate a garantire il riconoscimento momentaneo dei costi incomprimibili e la necessità di ricercare e valorizzare risorse giacenti.
Giacomo Libardi